L'editto-riale
L’evoluzione del mercato, tra fatti e (falsi) miti
Lo sa bene il pastore, per governare un gregge gli basta un cane; per star dietro a una pecora (nera) serve un branco.
Fino a qualche anno fa – l’apogeo l’abbiamo visto nel triennio d’oro 2013/2015 – le aste internazionali mietevano record su record e si è assistito per la prima volta all’inversione delle regole del mercato fino ad allora consolidate. I prezzi a cui certi lotti venivano venduti erano più alti di quelli di … mercato. Comprare in asta era quasi un controsenso, un privilegio (facilmente) conquistabile pagando un premium price. Ci ricordiamo certamente di certi carrozzoni venduti come fossero star indelebili della storia che fu e che sul mercato, questa volta quello vero, mietevano prezzi outlet. Abbastanza velocemente quindi il gregge ha inseguito le chimere che velocemente si diffondevano sui social arrivando a un aggiustamento che però non ha fatto i conti con la reale situazione. I prezzi del “mercato” cominciarono così ad aumentare vertiginosamente e tutti tirarono fuori dal garage di nonna la loro scassata “pride and joy” di cui si erano beatamente dimenticati e, pensando di fare il colpaccio perché “uguale” a “quella che stava in asta in America” hanno cominciato a osare di più delle aste stesse paralizzando, quindi, il mercato. C’è voluto qualche anno per farlo ripartire e ancora una volta gli “appassionati” che lo popolano si sono resi conto che quello che vale per alcuni non vale per tutti. Amaro risveglio non c’è che dire.
I primi a rendersi conto dell’esaurimento della spinta al rialzo sono proprio state le aste internazionali che notoriamente sono più umorali e intuitive di alcuni beoti che ancora credono di vendere la Giulia quadrifoglio X al prezzo di quella che aveva Y a Essen l’altr’anno.
E così adesso gli affari si sono tornati a fare in asta, specialmente in quelle a corto raggio, dove per la loro perifericità è più facile non avere una concorrenza troppo agguerrita. Ma è così che si rende davvero un servizio al mercato ed è così che lo si alimenta. L’utopia della crescita infinita ha fatto fare qualche tonfo a qualcuno ma l’adrenalina che dà un duello tra compratori può far accendere passioni e istinti speculativi che buttano nuova benzina e contribuiscono a far muovere un comparto da oltre 2 miliardi di euro.
Altra cosa da non dimenticare è che il concetto di “modello” è ormai superato. La Giulia venduta a Essen l’altr’anno era, per l’appunto, “quella”. Nella corsa ad accaparrarsi quanti più esemplari possibili “identici” a quelli venduti a peso d’oro nelle aste ci si è dimenticati che un’auto d’epoca è un’auto d’epoca: non una replica! La corsa all’oro ha prodotto orrori, restauri aberranti, un proliferare di millantatori che nel sottobosco della “passione mordi e fuggi” hanno distrutto un patrimonio automobilistico inestimabile. Un’auto d’epoca è un’auto che rappresenta lo stato dell’arte, il pensiero, il modo di vivere, le ambizioni, le visioni di chi le auto le faceva (non solo per chi le comprava). Vedere oggi un motore con parti tropicalizzate, che in natura non sono mai esistite, fa un effetto Frankestein che porta a interrogarsi sul significato di passione e sui potenziali effetti devastanti specialmente se “guidata” da modelli sbagliati. Distruggere la loro originalità, o meglio l’autenticità, equivale a distruggere il patrimonio che rappresentano, fine del discorso.
Ogni restauro, beninteso quando non funzionale alla sopravvivenza dell’auto, è un restauro non solo inutile ma profondamente dannoso al patrimonio motoristico nazionale, ben più delle famose bisarche che portano le nostre macchine all’estero. Vedere una vernice originale anche se logora, una cromatura fiorita o un pomello usurato è affascinante, ti riporta alle vite trascorse su quelle auto. Non stupisce quindi che una vettura conservata o restaurata con intelligenza e non alla carlona spunti prezzi da corrida, non è il modello bensì l’esemplare che merita un riconoscimento speciale e conseguentemente un prezzo. Così l’ampiezza della forchetta per esemplari dello stesso modello (e quel che è peggio, per i più, “identici” ) può raggiungere anche il 100% con tanto di mistificazione in ogni recondito gruppetto attivo su qualche social. Una Alfa 6 conservata e giunta fino a noi in condizioni impeccabili agli occhi dell’appassionato (vero) brilla più di una Fiat Dino pasticciata perché della Dino che fu conserva forse la targhetta col numero di telaio. Le speranze di fare guadagni facili rovinano poi tutta la magia. La 127 verde bottiglia o beige pastello che ha attraversato le ghigliottine di decenni bui senza sacrificare lo spirito dei suoi anni, anche a costo di qualche necessario adeguamento reso necessario dall’uso, vale necessariamente più di blasoni anche altisonanti ma che hanno perso la loro autenticità fino a diventare automobili mute. La pelle di quei sedili era su una mucca nata l’altr’anno. Appunto.
I correttivi di questi ultimi anni hanno messo in evidenza come l’autenticità caratterizzi i singoli esemplari , i nuovi fuoriclasse, e ne determini il valore. Si è detto che l’autenticità esiste una sola volta poi più o meno lentamente svanisce. Il bravo custode rallenta questo processo godendosi la propria vettura, abbandonando per un momento il mostruoso ideale di perfezione a cui certi restauri ci hanno abituati.
L’immagine di copertina si riferisce a una Pantera esposta di recente a Grand Basel. La straordinaria peculiarità dell’auto è il suo emozionante stato di conservazione, con graffietti e piccole ammaccature che parlano di lei e della sua storia
Walter Binelli
22 Novembre, 2018 at 12:45
Analisi condivisibile, tranne la parola “forchetta” retaggio di malcostume elettoral-televisivo. Si dice FORBICE per indicare lo scostamento tra due valori.
Grazie dell’attenzione.
Manuel Bordini
25 Novembre, 2018 at 19:15
Grazie a te Walter per l’attenzione. Ogni feedback è sempre stimolante per fare meglio